Marco Chiurato invidia Brancus di Samuel Peron
ENVIES by Marco Chiurato-BRANCUS by Samuel Peron
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Appuntamento presso il prestigioso spazio Edit di Via Maroncelli 14 MILANO
giovedì 8 settembre · 19.30 – 23.30
Via Maroncelli 14 – Milano

 

 

Giovedì 8 settembre 2011- All’interno dell’evento “Vogue Fashion’s Night Out”, Samuel Peron presenterà alla stampa alle ore 21.00, nel prestigioso Spazio Edit, la sua collezione donna 2011/ 2012 Brancus. La serata partirà con un video di 4 minuti di Marco Chiurato che si intitola “Invidia”, già presentato alla Biennale di Venezia e curato da Sgarbi. Di seguito la presentazione della collezione attraverso un’esibizione di danza moderna dove le ballerine indosseranno i capi ed i gioielli Brancus.

Samuel Peron, noto ballerino lanciato dalla trasmissione su Raiuno “Ballando con le stelle”, balla dall’età di 4 anni, ed oltre all’amore per la danza ha un altro amore quello per la moda. Ha studiato design, ed ha messo a frutto la sua creatività e passione per la moda impegnandosi in questa nuova sfida con la tenacia ed il talento che gli si conoscono sulla pista da ballo.

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MARCO CHIURATO INVIDIA SAMUEL PERON
testo critico di Gaetano Salerno

Più vero e forte dell’amore, tra i sentimenti che il vivere sociale ci ha dapprima svelato e poi imposto di ridimensionare, emerge l’odio.
L’Odio ha governato in origine il mondo, insieme al Bene, bilanciando l’Ordine e il Caos, regolando il naturale andamento degli eventi, fino a lasciare ad un effimero equilibrio dettato da principi armonici – in realtà da stati di quiete apparente e provvisoria – il compito di individuare nuove conciliazioni esistenziali, nuove scale di valori comportamentali, in attesa di nuove e inevitabili esplosioni emotive.
Ora completandosi e compensandosi fino all’eccesso, ora rifiutandosi con determinazione, odio ed amore hanno originato, nel tempo, digressioni proprie ed inarrestabili, rapide discese nella psiche umana lungo percorsi irrazionali ma imprescindibili quali l’invidia, il ripetuto guardare oltre i propri limiti e limitazioni, oltre la presunzione della propria unicità, verso l’accettazione dogmatica dell’altrui presenza.In questo moto psicologico vorticoso e violento si colloca e trova forza l’azione artistica invidiosa di Marco Chiurato.
Lo sguardo lambisce e invade universi altrui, abbraccia gli oggetti che li compongono e li animano come attori sulla scena; l’invidia ne corrode la presenza, scatenata dall’insostenibile rammarico di non poterne condurre l’azione, di non poterne arrestare l’incommensurabile moltiplicazione esponenziale, di non poterne arginare la dilagante conquista spaziale nell’epoca della riproducibilità tecnica che amplifica il valore dell’unicum nella sua riproposizione seriale, garanzia di populistica ma inconfutabile immortalità.Comprensibile dunque nell’artista il desiderio – a cui fa seguito un gesto immediato e incondizionato – di sottrarre l’icona al nostro morboso guardare, di cancellare la sua azione semantica dal mondo che ne decreta ingenuamente ma collettivamente il passaggio da disordinata materia informe a forma d’arte compiuta.
Nella storiografia della pratica artistica l’annullamento iconico ha da sempre alluso a nuove rinascite; e verso nuove ricostruzioni, scatenando il lato sovversivo ed oscuro dell’essere umano, da sempre ha condotto le nostre energie (auto)distruttrici contro una civilà repressiva che limita e ingabbia l’anarchia evoluzionistica, basata invece sulla condivisione, sulla conquista e appropriazione passiva di idee pensate da altri.La stessa vis artistica autorizza la distruzione; ecco allora che il furor creativo si traduce in furor sterminatore, indotto da un’invidia inaccettabile per l’oggetto altrui, l’intuizione altrui, supportata dall’incapacità, all’interno di un credo postmodernista, di strutturare narrazioni lineari, scansioni temporali logicamente diacroniche, di concepirsi ancora originali senza imbattersi nell’onesta falsità del già visto, già detto, già scritto.Distinguendo ovviamente il valore cultuale dell’opera d’arte da quello espositivo e ammiccando a teorie strutturaliste in cui il prodotto artistico si prefigura come insieme organico scomponibile in sottoelementi unitari, tra loro regolati da precisi rapporti di interdipendenza, l’abito del male con cui si veste l’artista null’altro è se non la rappresentazione scenica e aristotelica dell’opposizione della volontà dell’uomo alla volontà divina, la fuoriuscita dal mondo morale verso l’ammissione della patologia stessa; solo l’intento performativo ne smorza gli eccessi e ne dirige le finalità, divenendone essa stessa cura attraverso una meta-narrazione maggiormente complessa e frammentaria.
L’inaccettabilità del ritardo sull’azione (il non fatto da me, logica sviluppo dell’avrei potuto farlo io) scatena in Marco Chiurato emozioni latenti inespresse; le operazioni catartiche attraverso le quali rimuove dalla mente il peso schiacciante dell’invidia, dichiarando primariamente di esserne vittima (reo confesso dunque di un vizio capitale grave e socialmente esecrabile) e cercando di controllarlo attraverso l’interpretazione di un canovaccio del quale tutti quanti vorremmo, almeno una volta nel corso di una vita, diventare protagonisti, coincide con l’eliminazione dell’origine della dissonanza e l’annullamento del principio primordiale del malaise existentiel, nella convinzione/speranza che l’eliminazione fisica possa condurre a un ritrovato stato di benessere psichico.Dopo aver invidiato Mendini, Velluto, Pellanda, Vaccari tra i tanti e preso atto del fatto che chiunque sia potenziale vittima dell’occhio invidioso e potenziale bersaglio di drammatiche aggressioni fisiche, l’artista scarica la sua “ira” sul brand appena creato (Brancus) dal ballerino Samuel Peron, scegliendo come momento dissacratorio proprio la presentazione ufficiale dello stesso alla stampa, nell’epicentro milanese della mondanità e della moda, rendendo ancora più violento l’atto distruttivo contrapposto all’atto creativo, come due facce antitetiche ma inseparabili della stessa medaglia.Fino ad oggi l’azione performativa brutale dell’artista ha sempre rivolto l’attenzione verso il proprio spazio – corpo o emanazione di esso – intraprendendo percorsi di barbara dissacrazione, sanguigna ed estremizzata, comunque connotata da un criterio di autoreferenzialità che riportava l’attenzione sull’artista stesso, apologeta e detrattore di sé stesso.
Marco Chiurato trascende questo limite, violando apertamente le regole di un “universo precostituito” e fortemente gerarchizzato: individuato il bersaglio vi si scaglia contro, ridiscutendo a suon di vigorose martellate il significato stesso del suo agire artistico e ricollocando il feticcio violato ben al di fuori del valore che solamente la sua esistenza spaziale dovrebbe aver infuso in esso e garantito nel tempo, separando nettamente l’ idea di concepire da quella di costruire, rinunciando all’artigianalità che l’etimologia della parola arte recherebbe in sé per aprirsi un varco in un sistema (non solamente artistico) protetto da sacralità inviolabile ma non per questo inattaccabile o infrangibile.La realtà euristica dell’(al)ready made, nella cultura dell’iper-realizzazione vincolata all’imprevedibilità della moltiplicazione o dell’annullamento del progetto, consente unicamente di accettare il suggerimento fluxus di John Cage (“essere originali poiché c’è ancora tanto da copiare”) o di distruggere, in alternativa, ogni testimonianza scomoda, sgombrando il campo per ricominciare.Marcel Duchamp ha osato dissacrare l’oggetto, decidendo di non privarci della sua didascalica ed autorevole presenza; Elaine Sturtevant se ne è più volte appropriata, riutilizzandolo a suo piacimento; oggi l’artista è maturo per compiere un passo ulteriore e definitivo.Pianificando l’assenza si giunge, concettualmente e paradossalmente, al compimento dell’opera d’arte stessa, ricollocandola nel mito che vive indipendente dalla sua genesi, inesistente come l’immagine mitologica di una narrazione solo orale, come bene prezioso occultato dal tempo e riportato alla luce solo da molteplici frammenti attraverso i quali intuire nuove storie, nuove civiltà, nuovi valori culturali.La materia serba in sé la caducità della sua natura, in potenza; l’opera d’arte partecipa parimenti ai processi di corruzione e disfacimento del mondo fisico; l’artista ne accelera il processo ridiscutendo qui e adesso il principio di incorruttibilità; impedendole di terminare la strada lunga e tortuosa verso la sua conversione iconica, la riconduce abilmente al santuario delle muse, laddove il ricordo è più forte della presenza, laddove il mito sopravvive eterno al disfacimento stesso della carne e della materia.La performance di Marco Chiurato è multisensoriale; anche nella musicalità dell’atto disgregativo, nella polifonica spartitura della rottura in mille pezzi, quando l’essere allude al non-essere, si prende coscienza della fisicità della materia, apprezzando i suoni che essa genera sotto i colpi che ne deturpano la forma senza però intaccarne l’anima e ribadendo così ufficialmente la sua forza comunicatrice, il suo valore estetico già acquisito.
L’icona scompare, l’arte che essa sottende no.Esplorando barbaramente l’oggetto, decostruendolo proprio attraverso quelle linee di forza che ne avevano guidato la nascita e ne avrebbero garantito la sussitenza nel tempo, l’artista esplora un mondo sconosciuto, il suo mondo interiore, conoscendo meglio sé stesso attraverso la spinta ad agire che nell’intervento esplorativo intravede la conoscenza.Tutto questo accade sotto l’occhio per nulla preoccupato – anzi compiaciuto – del creatore dell’oggetto violentato, profanato, distrutto. Segno che la sua mistificazione sia intrinsecamente connessa al passaggio dell’azione del fare a quella del pensare, lasciando così al simulacro che lo avrebbe accolto solo la sensazione eterea di una ricchezza di cui nessuno può materialmente disporre ma che culturalmente appartiene all’umanità.

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