Ifi è stata violentata.
Ifi ha memoria, nel suo corpo, di quel gesto turpe.
Infatti, il suo stesso sesso le si è rivoltato dentro, vergognoso d’ospitare e subire un
così osceno ricordo.
Colpevole, in qualche modo, d’esserci; come uno stampo, un marchio d’immoralità
posto lì per la vita.
Ifi sente che quel membro è ancora dentro di lei e che altro non può che perpetuare quella violenza proprio lì, in quel luogo oramai profanato nel quale è avvenuta.
Ora,
possiamo provare pietà per Ifi. Piangere per lei mentre lei si tormenta intorno al suo peccato, all’onestà compromessa del suo corpo, che resterà sporco e sbagliato per sempre.
Oppure,
possiamo ridare fiducia ad Ifi. Guardare tra le sue gambe per vedere solo quello che in verità c’è: un sesso di bambina.
L’innocenza è un’invenzione.
Il sesso che viene nascosto, coperto, perché non è bene sia visto, come anche quel sesso che è invece ostentato, esposto proprio in quanto tabù da dissacrare, non è reale.
La naturalità delle cose, sola, è reale.
Quello che è stato fatto ad Ifi è doloroso. Ma la vergogna è una punizione anche più ingiusta.
L’artista suggerisce che fintanto vediamo la scabrosità in una vagina e non la bellezza innata, semplice, intrinseca e sempre pura del corpo umano, non solo lo stupro continuerà ad accadere proprio come conquista bruta di qualcosa di misterioso e proibito, ma anche si perpetuerà nell’intimità della persona, nella colpa, in un disonore che persiste e che infetta l’identità.
L’artista invita il pubblico a restituire ad Ifi l’innocenza perduta. Come?
Lasciando alla Natura di definire la moralità.
Come?
Facendo il calco della sua vagina, andando oltre il senso di scandalo e all’imbarazzo che questa desta.
Perché?
Perché Ifi sappia che la sua vagina non è diversa, umiliante o indecente;
che una volta dismesso il giudizio, un fatto è solo accaduto, ma non cambia la natura di ciò che è.
Sofia Cavalli