MADRE DI MERDA
Un ossimoro impronunciabile, “madre” e “merda”, un anagramma inopportuno. Mai e poi mai vorremmo riferire queste due parole l’una all’altra, accostando l’imprescindibile allo spregevole. Mai potremmo dire male della Madonna che tutto ci ha dato; e la vita. Ma cos’è la vita? Cos’è quell’impalpabile fermento che una volta acceso è capace di spingere con tutta la forza possibile fino alla massima espansione, ovvero fino ai piedi di quel muro d’ombra che ci attende al fine? Ma soprattutto: di questo lievitare inarrestabile, chi è la causa prima? Chi, infaticabile, continua a muovere questo vorticoso giogo? Chissà, può darsi che di fronte alla vastità impenetrabile di questi quesiti, vecchi come l’umanità, verremo colti da turbamento. Forse, anche dall’impulso disobbediente di scendere fino a piani inferiori della nostra coscienza; e scendere ancora. Ma una volta lì, protetti da ogni giudizio, potremo forse mestamente ammettere che le abbiamo pronunciate noi, almeno una volta, seppur a denti stretti, quelle due parole insieme; quando ci siamo sentiti soffocati, magari, o non abbastanza amati, oppure anche troppo. Per il nostro esile scheletro. Forse, ci domanderemo se ancor prima di noi, la mamma, parlando al ventre gonfio delle ultime notti insonni di gestazione, si domandasse a sua volta: “che razza di madre sono a credere di sapere cos’è meglio per mio figlio? A crederlo mio, somigliante a me, dovente attendere al mio gigantesco orgoglio? A non riconoscerlo invece come figlio del mondo e della Creazione, un dono che non mi appartiene, ma che mi è solo temporaneamente affidato…”. Ci sono pulsioni che rimangono latenti, sotterranee, come correnti convettive sotto pelle, destinate a smuovere la dinamica tettonica della nostra intera esistenza. Proveniamo geneticamente da un altro essere umano, con il quale siamo stati in totale e confortevole simbiosi fino al parto, ma l’istinto a identificarci con quel legame, e nutrircene, è in costante ma sottile contraddizione con il bisogno di reciderlo, disconoscerlo, soppiantarlo. Forse, quella forza, quei legami atavici, quei segni che portiamo nel volto, sono anche sbarre invisibili di una gabbia d’amore dalla quale siamo spinti a fuggire. Perché solo quando siamo fuori portata, soli come un puntolino nero in un Universo più immenso e vuoto di quanto ci sia dato immaginare, ci rendiamo conto che quell’energia vitale, quella spinta cominciata dalla brodaglia primordiale che eravamo, proveniva da nostra madre. Lei, che eroicamente ci ha amato e respinto, lodato e sgridato, soffocato della sua presenza, di aspettative, di valori; dei sogni che ancora ci fanno sentire in colpa per non averli saputi avverare. Quella madre che ci ha ferito più di chiunque altro, in qualche modo e da qualche parte nel nostro caotico ego in fieri. Una ferita che però ci ha anche salvati, in quanto scintilla d’avvio alla nostra disperante ma necessaria ricerca: il nostro processo di individuazione, ovvero di come trovare il nostro posto specifico nel mondo e nella vita. Quella madre che non ha mai capito interamente, pur conoscendoci meglio di chiunque altro, ma della quale, l’amore, ribolliva incessantemente e spingeva, spingeva, spingeva finché non abbiamo spiccato il volo, finché non ci siamo separati, finché non abbiamo trasceso la dimensione di figlio per abbracciare quella d’individuo. Lei, d’altra parte, s’è spenta, o si spegnerà, per poi rimescolarsi alla “merda”, la pasta madre: quella materia che si scompone e ricompone senza tregua dall’alba dei tempi in combinazioni sempre nuove, irripetibili, e indispensabili allo svolgimento del tutto. D’altronde, ognuno condivide con l’altro la medesima natura particellare. La sostanza di cui siamo fatti, anche la nostra Santa madre, è la stessa: la stessa della merda e la stessa delle nostre ambizioni, delle nostre sinapsi e della terra fredda nella quale ci seppelliamo. Questo ci rende tutti uguali? No. Ma la vita ha una direzione sola, cioè quella della dispersione e dell’allontanamento dalla sorgente, dall’origine – e dalla madre, appunto – fino all’entropia che svincola tutto da tutti. E riconoscere che nostra madre è una porta luminosa, per la quale siamo entrati e usciti, e che noi siamo figli della stessa misteriosa forza perforante (e conseguentemente fratelli) è la consapevolezza latente che l’amore materno infonde. Quel vorticoso, intricatissimo, fragile, vincolante, dirompente ma rassicurante intreccio tra madre e figlio – per cui lei è destinata a perdere il cuore e vederselo camminare davanti, prima a carponi, e poi a grandi passi che rapidamente si allontanano – è non solo una gabbia d’amore e protezione, ma anche terreno fertile nel quale ci dividiamo per mitosi. Così da poter procedere da soli. E’ il luogo dove spinte e controspinte ci costringono al volo; è la dimensione più rarefatta e indecifrabile dell’anima; è dove abbiamo imparato a leggere ad occhi chiusi la meraviglia che accompagna la nostra più significativa solitudine. testo di Sofia Cavalli